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“IL ventre di Scampia”, Emanuele Cerullo

Ciao, che stiate sorseggiando un caffè mattiniero, la pausa di una giornata impegnativa o la sera, con il conto di quello che é andato o non è andato.

Voglio iniziare queste nostre chiaccherate con un poeta. Parola grossa, lo so, e se fossimo su whatsapp, riceverei vagonate di faccette urlo, ma lasciamo che sia lui stesso a dirci chi è:

“…Mi chiamo Emanuele Cerullo, sono nato nella primavera del 1993 e studio lettere moderne alla Federico II di Napoli… ho iniziato a scrivere poesie alle elementari, dopo aver ascoltato la Fontana malata di Palazzeschi (e mi sono accorto di recente che è stata una reazione, la mia, analoga a quella di Pasolini, che, dopo aver ascoltato in classe una poesia di Rimbaud, ha avvertito il suo “antifascismo”) e vivevo proprio in una delle vele di Scampia, palazzoni di cemento a forma di vela…”

La semplicità nel raccontarsi di Emanuele invita a non aggiungere altro commento e a correre invece ad ascoltarlo nei suoi versi.

A me è accaduto dopo un’intervista su Rainews. L’ho visto far da guida nel palazzone in cui è cresciuto, la vela azzurra, e ho visto il suo sguardo sulla siepe di cemento, Madre cementissima, in una sua poesia.

Nessuna tentazione di rinnegarla e sprofondare in un naufragio d’infinito, ma la voglia di ricercare bellezza e ragioni proprio lì, nel ventre, perché dal ventre, in fondo, si genera lo tsunami di emozioni che gonfia le vele dell’anima.

Ho visto soprattutto il disagio di specchiarsi fenomeno negli occhi dell’intervistatrice, quasi a sottolineare lo stupore per il contro natura, come se quegli occhi si trovassero di fronte a un orso polare sulle sabbie del Sahara e intonassero compiaciuti De Andrè: dal letame può nascere un fiore…

Scrive, infatti, Emanuele nella sintesi di un verso:

Lo vogliono armato di periferia questo versato di poesia”.

Ma poiché un verso è, appunto, un universo racchiuso in una goccia d’acqua, difficile da vedere e facile da calpestare, in un’altra intervista Emanuele usa la prosa per rendersi visibile:

“…io non sono poeta perché vengo da Scampia né voglio che risulti curioso che vengo da Scampia eppure faccio poesia…”

Ammetto che anch’io ho scorso le sue pagine sulla spinta del miraggio per l’orso polare nel Sahara, poi leggendo, ho sentito la “sovversione” di emozioni sepolte nel cemento del disincanto. Credo sia questa la potenza evocativa di Emanuele.

Con la levità di un verso piccona l’abitudine al tanto è inutile perché il mondo va così e sprona, qui la sovversione, al coraggio di guardare la bellezza tra le pieghe della vita, di rivendicare il diritto a sognare.

Sognare non tra le mura di una stanza, non l’illusione, ma il sogno che si scalda di lotta e diviene il pulsare del sangue lungo le vene.

…mi sono costretto a vivere un sogno
perché più non voglio sognare di viverlo,
sto costringendomi a inventare il tempo per non perderlo.

Una “costrizione” che in Emanuele assume il ritmo di un rapper nei versi conclusivi della poesia a Pasolini, “l’autore che più si avvicina alla mia realtà”:

…avresti, sai
poetato con i garzoni
dell’illegalità;
qua, dove l’indifferenza 
non è il mio coprifuoco
sgorgano
le tue ceneri
Pier Paolo.

Ritmo rapper, accellerato, incalzante come il tamburo di un batterista, e poi, d’improvviso, la virata: il nome che si tronca in un punto, nel silenzio, perché il silenzio ne moltiplichi l’eco.

Poesia è quello che senti nello stomaco, nel ventre, quando il respiro da piuma si fa pietra, ma leggerissima, come se per alchimia la gravità si muti in lunare. Ecco il perché della mia scelta, per quel tamburo che batte dentro e non trova parole.

Se la storia di Emanuele ti ha incuriosito e vuoi approfondire la sua scrittura, ti diamo la possibilità di acquistare il suo libro cliccando il link: Il ventre di Scampia.

E per esprimere ciò che non ha parole, mi piace chiudere con l’immagine di un altro poeta, Cettina Caliò, sintesi inconsapevole di quanto speso fin qui:

“In questo ci vedo la voglia di farcela a prescindere: io ci sono, riesco a vivere anche qui.”

Foto in copertina di Elisabetta Cartiere – Studio105ffotografia.

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