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2 risposte
Niente di più vero.
La dolcezza è l’ultima frontiera dell’io, l’ultima barriera che abbatti prima di aver messo completamente a nudo l’anima.
E’ insospettabile la dolcezza, può nascondersi dietro al più burbero dei caratteri, anzi più appare forte e deciso, più l’uomo sa essere dolce.
Non c’è debolezza nella dolcezza, al contrario c’è sensibilità e forza.
E sì, esser forti è assolutamente necessario esercitando la dolcezza, proprio perché mettersi a nudo, a dispetto delle maschere che anche inconsapevolmente indossiamo per proteggerci, implica saper assorbire il colpo nel caso in cui il tuo interlocutore non ricambi i tuoi sentimenti.
Perché, normalmente, ti sveli dolce nei confronti dell’amore, verso chi ti conosce più a fondo, nel nucleo familiare e nella ristretta cerchia dei più intimi amici e poi, paradossalmente, nei confronti dell’estranea cui vorresti legare il tuo destino.
E quando sei arrivato all’ultimo strato di pelle, perché vuoi dare il meglio di te e sfondi tutte le convenzioni, abbandoni la prudenza, ti liberi dell’amor proprio e scendi, addirittura, a compromessi con la tua dignità, se non trovi il corrispettivo, se non c’è la sensibilità per capire che le ferite a carne nuda fanno male, allora devi ammettere di aver profondamente sbagliato e fare appello a tutta la tua forza, ‘che la superficialità, il perbenismo, anche la semplice, apparentemente innocua, curiosità (esercitata per il puro piacere di scoprire qualcosa di nuovo) di chi non ti ama, feriscono come coltelli arroventati.
Resta in te questa sofferenza, è un segno che si imprime nell’anima, è l’esperienza peggiore che possa capitarti ma è anche quella che rifarai ogni volta che ti innamori di qualcuno, magari con qualche piccola variante… il puro istinto non aiuta, aspetterai che la dolcezza dell’altro si riversi su di te o eviterai di raggiungere un livello di sopportazione del dolore che, implacabilmente, alza la tua soglia, andando a nascondere la tua dolcezza piuttosto che esternarla.
Sì, è meglio non sprecare dolcezza, non farne la propria arma di seduzione, non serve, contiene sempre un che di ambiguo, si presta a troppe indefinite interpretazioni e la Monroe ce lo insegna, si paga, anche con la morte, la dolcezza sprecata, si paga ed è un prezzo, alle volte, troppo caro.
Tenetevela stretta la dolcezza, puntellate la vita di scorci in cui farla intravedere, perché non vi si giudichi più coriacei di quanto in realtà siete, ma non donatela spontaneamente, non facilmente e non alla prima persona che capita, perché per apprezzarla ci vuole altrettanta dolcezza, tanta sensibilità e tanto amore… ma in fondo, comunque, è un rischio da correre, ‘che se avrete fortuna la ricompensa è sempre un briciolo di felicità.
Lungo il nostro percorso, tutti abbiamo delle pietre miliari a cui ripensare quando ragioniamo su noi stessi, sul come e sul perché si sono modificati i nostri comportamenti. Sui motivi che rallentano il cammino e ci spingono a modulare con più attenzione le nostre emozioni, talvolta cedendo alla tentazione di controllarle fino alla negazione.
Eventi, situazioni, relazioni che ci hanno lasciato un segno delimitano il confine tra il prima e il dopo, ma sono soprattutto le esperienze dolorose a condurci al cambiamento, a modificare il nostro modo di relazionarci con i nostri mondi vitali.
Alcune di queste esperienze produrranno ferite brucianti per sempre, lenite solo da un sottile strato di pelle; altre si trasformeranno in cicatrici ormai del tutto rimarginate sulle quali ogni tanto passeremo un dito compiaciuti, quasi fossero amabili rughe d’espressione dell’anima, testimonianze del nostro coraggio di andare e provare.
Ma la colpa è il perno del nostro modello educativo: ci insegnano fin da piccoli che sbagliando s’impara e, allo stesso tempo, si sottolinea quanto sia inaccettabile persistere nell’errore indipendentemente dalla situazione e dalla relazione in cui si è prodotto. In fondo, se soffri la colpa deve essere un poco tua che hai disatteso le regole della prudenza, non hai saputo interpretare i segnali, hai sprecato tempo ed energie, non vali abbastanza.
E allora, dopo l’ennesima doccetta di napalm, anche tu, l’ultimo degli aspiranti kamikaze, ti disponi finalmente ad imparare.
Provi ad osservarti dall’esterno, mentre ti relazioni con gli altri, particolarmente quando cogli l’importanza di una persona e senti che non vorresti più farne a meno. È quello il momento in cui ti guardi dentro e vedi che le emozioni e i desideri sono sempre lì, stanno danzando con i tuoi bisogni e sono pronti a ributtarti in mare.
Ma le rive non sono di sola sabbia. Hanno anche scogli e speri ardentemente di riuscire a frenarti prima che le onde ti sospingano verso di loro.
Ti senti vivo perché ami, desideri e speri.
Poi ti guardi e conti le ferite. Stanno pulsando.
Se ne apre una – basta una parola, una sensazione, uno sguardo, un’intenzione che non percepisci accolta – e, come un orlo che si scuce, si lacerano tutti i piccoli e sottili strati di pelle che le leniscono.
Il ricordo del dolore diventa disillusione, si fa informe, rallenta i tuoi passi e si confonde con la paura.
È lì che realizzi di essere al dopo, l’esperienza ti ha impartito la sua lezione e, se provi nostalgia, non è la pelle liscia, non il vigore, non la freschezza o la spontaneità che rimpiangi.
Guardi con tenerezza alla spavalderia con la quali gustavi ogni gioia senza occuparti degli altri, di chi pensava che cosa, di quanto fossero al tuo fianco nel sentire, di quanto potevi essere coltello.
La reciprocità nelle relazioni era un di più piacevole ed entusiasmante. Il rischio dello schianto era come il vento sul fuoco.
Nel dopo conosci la tristezza, il sorriso si fa amaro. Sai chi sei e di cosa brucia la tua carne e puoi permetterti il lusso di rimanere tra le onde aspettando di vedere se la riva è sabbia o scoglio.
Il tempo di raccogliere le forze e di maledirti per esserti tuffato di nuovo, poi si nuota verso riva pronti ad abbracciare lo scoglio.
Pazienza, non sarà un’altra ferita ad ucciderti e comunque la morte, per te, non sarà una formalità.