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Una risposta
Quasi sempre avulsa dalle righe di chi descrive il proprio vissuto nella quotidianità dell’esperienza di una vita in cui la pubblica condivisione di pensieri e sentimenti, vuoi per la professione, vuoi per l’indole, rappresentano una scelta quasi obbligata, la pratica della spiritualità, intesa come introspezione nel silenzio, e’ una apparente contraddizione.
In realtà, al netto del rumore di fondo, fuori dalle luci del proscenio, la ricerca della propria identità inizia proprio dalla scoperta di tutte le meravigliose cose che sono contenute nella propria anima.
Spesso stimoli esterni contribuiscono a svelare aspetti di noi stessi che non conosciamo, ma è in assenza di stimoli che impariamo a conoscerci a fondo, perché, quegli stessi stimoli, dobbiamo ricercarli, e quasi sempre li troviamo, concentrandoci sull’interno, anziché sull’esterno.
La natura del cercatore, la pratica di passare al setaccio ogni azione, ogni comportamento, ogni illusione, ogni entusiasmo, aiuta a crescere ma è impraticabile in assenza di spiritualità.
Il primo pensiero che viene in mente, scrivendo la parola, si indirizza verso le pratiche religiose, non fosse altro per la netta distinzione che, in tutte le religioni, conclama la differenza tra l’aspetto corporeo e quello etereo dell’essere umano, sdoganandone il dualismo, materia e spirito.
Ma c’è una visione più laica della spiritualità, che non si appella alle ideologie, non alle religioni, ma affonda le sue radici nella cultura umanistica.
Se l’uomo è al centro di tutto, e’ anche al centro di se stesso, sotto l’adipe della civiltà, nell’intimo, recondito spazio, dove alberga la coscienza della necessità di tendere al bene, per se stessi e l’umanità intera, prescindendo dalla fede religiosa.
E il bene, oggi più che mai, si nasconde sotto fronde incolte di superficialità, come le rose in un giardino confuso dai rovi.
Ben venga, allora, la ricerca del silenzio nella pratica dell’introspezione, in un teatro vuoto, su di un palco a luci spente, col sipario chiuso… al buio, toccando la propria pelle, sfiorando la propria anima, ad occhi chiusi, per comprendere se è poi così importante stare su quel tavolaccio, piuttosto che rimettere i piedi per terra e farsi trasportare dal mondo nel suo inesorabile roteare.